Sergio Cabigiosu

“È il primo giorno di Master, comincia un nuovo capitolo.”

Sono le 17.30 di martedì e sto uscendo dal lavoro. Squilla il telefono, è un collega, quasi capo con un ruolo non ben definito “ciao Sergio, puoi salire da me un attimo?”. Salgo e l’aria è tesa, comincia il suo discorso. La sostanza è: o te ne vai con tre mesi di stipendio oppure cassa integrazione e poi licenziamento.

 

Sono frastornato. Ho sostenuto per anni con convinzione che se lavori sodo e con passione non possono licenziarti. Sono solo coloro che vivono il lavoro come un obbligo, senza metterci del loro e senza dare energia che possono essere licenziati. Sbriciolata! Ecco che fine aveva fatto la mia convinzione.

 

È sabato e il week end mi sembra eterno. Apro il computer e leggo la risposta a una mail di qualche settimana fa: non sono stato accettato al master finanziato in Training Management perché sono lavoratore dipendente e il master è full time. Improvvisamente parte un pensiero: cassa integrazione a 0 ore, libero full time, senza soldi, master in training management, finanziato dalla UE, full time.

 

Sono seduto al banco e mi sembra di essere tornato indietro di 10 anni, quando ero uno studente. La cosa mi diverte e mi imbarazza allo stesso tempo. Sono il più vecchio. I miei “compagnucci” mi guardano con aria curiosa. L’età e l’esperienza mi danno quel tocco di spavalderia che fa sorridere. Mi contengo è il primo giorno di master. Come diceva un grande di cui non ricordo il nome “non c’è mai una seconda occasione per fare una buona prima impressione”.

 

Non tutti i mali vengono per nuocere. Rido al pensiero della mia folle teoria del destino “orientabile”. Guardo la professoressa con la sua lunga chioma e il suo sorriso. Comincia un nuovo capitolo.

Aggiornamento 2020

Due anni dopo

Continuo a pensare che le cose non succedano mai per caso. Forse perché credo nella grande potenza dell’Universo, che come diceva Coehlo, trama perché tu possa ottenere quello che desideri. Ed io aggiungo, a patto che tu sappiacosa desideri e ti impegni per ottenerlo.

In questa cornice inserisco anche il riconoscimento avuto da EPALE come Role Model di Resilienza. Un titolo che mi onora e mi imbarazza allo stesso tempo. Un titolo che mi interroga: “sei all’altezza di questo riconoscimento?”. Un titolo che mi stimola a pensare che da qui possano partire e aprirsi nuove strade. Sì, posso dire di essere una persona che nella vita ha dimostrato in diverse occasioni di possedere questa competenza: la resilienza. Ammetto che fino a poco tempo fa la chiamavo semplicemente testardaggine, quando ne parlavo in accezione negativa, e determinazione, quando ne parlavo in accezione positiva. Ma spesso, vista l’origina sarda, il segno zodiacale del Toro e l’educazione militaresca, mi definivo banalmente una “testa dura”.

 

Nel partecipare al concorso, due anni fa, avevo citato quella volta in cui all’età di 37 anni, nel pieno del mio cammino professionale, dopo solo un anno di ingresso in una nuova azienda, dove avevo pensato di poter crescere ancora, mi sono ritrovato nelle file dei “cassa integrati”. Pochi giorni dopo, raccolti i cocci, ero seduto nei banchi universitari a frequentare un master. A destra Flavio, 21 anni e a sinistra Ilaria, 23 anni. Ma io non mi sono mai sentito abbastanza veterano per non tornare sui banchi discuola! Su quel master avrei poi fondato il mio futuro professionale da libero professionista, creando la “mia azienda”.

Ecco, questo è quello che vorrei fare con questo titolo di RoleModel della Resilienza. Infondere in altre persone la visione ottimistica degli eventi, che ti consente di trasformare qualsiasi evento in un’opportunità. Il che non significa essere indenne a momenti di crisi, difficoltà, sconforto, ma significa usare tutta la propria energia per cercare l’aspetto positivo della circostanza.

Ritengo che ci sia molto bisogno di questa spinta nel nostro paeseper diverse ragioni e ne cito alcune. Primo, perché siamo una società che sta mediamente bene e questo fa perdere, nel lungo termine, il valore delle cose. Secondo, perché viviamo in una cultura del “lamento” e il lamento parte dal vedere che cosa non va. Esattamente l’opposto di quello che penso sia necessario per esercitare resilienza. Terzo, perché la mia vocazione è quella della formazione e quindi è nelle mie corde trasmettere, comunicare, infondere, trascinare. Restando sempre ancorato a quella famosa frase di Galileo Galilei che ho stampato sui miei biglietti da visita: “Non puoi insegnare qualcosa ad un uomo. Lo puoi solo aiutare a scoprirla dentro di sé.”