“L’arte, la cultura, il teatro, l’amore della mia famiglia, il dialogo con le Istituzioni, hanno completamente cambiato e schiarito i miei orizzonti.”
Mi chiamo Cosimo Rega, da qualche anno ho superato i sessanta, di cui circa 40 trascorsi nelle carceri italiane condannato a un fine pena mai. Il motivo? Sono un ex camorrista, mi piacerebbe aggiungere “ex assassino”. Ma questo lo sarò per sempre. Convivere con questa consapevolezza è la giusta condanna che mi accompagnerà per il resto dei miei giorni.
Avevo da poco superato i 20 anni, quando mio padre alla giovane età di 44 anni, a causa di una malattia ci lasciò per sempre. Io il primo di nove figli, confuso, presuntuoso, privo di qualsiasi istruzione, accompagnato dalle mie fragilità, posseduto dalla voglia di apparire, come un giovane puledro senza redini iniziai a correre la grande prateria fino a che smarrii la retta via.
Il guadagno facile, l’illusione e il desiderio di essere temuto e rispettato da tutti, i beni materiali, mi accecarono al punto di dimenticare uno dei sentimenti della mia rinascita: l’amore.
L’amore di mia moglie. E dei miei due figli, allora in tenera età.
Il mio carattere impulsivo, ribelle, per oltre 20 anni mi ha portato a valicare le soglie di tutte le carceri della penisola. Ero fiero, il carcere era il mio habitat naturale, e mentre mi cullavo nella vana gloria, non mi accorgevo della sofferenza che erano costretti a vivere mia moglie e i due figli.
La loro unica colpa di non aver mai, mai, smesso di amarmi.
Avevo ormai raggiunto i 40 anni quando affrontai per la prima volta la Corte Di Assise. Dovevo rispondere dall’accusa di due omicidi. Ero preparato alla sentenza. Non avevo mai voluto collaborare. Mi accusava il mio migliore amico. Era lì seduto a pochi metri da me. Cercavo il suo sguardo, lo stesso che mi aveva implorato di uccidere al posto suo. Ma la rabbia e l’odio che avevo covato dentro fino all’ora erano solo un ricordo.
Guardai i figli dell’uomo che avevo ucciso. Il loro sguardo era semplice pulito, non ascoltavano la sentenza. Fissai mia moglie, il suo viso perfetto di marmo, solo le palpebre tradivano la sua paura. Come l’attore che recita un copione aspettavo, consapevole che non sarei sfuggito alla giusta sentenza degli uomini, a testa alta. Nessun dolore, nessun pentimento quando il Presidente della Corte emise la sentenza ERGASTOLO. Ero preparato.
Poi aggiunse: Perdita della podestà genitoriale. Cancellazione dall’albo del Comune di residenza. Perdita dei diritti Civili. L’affissione della sentenza nella bacheca del Comune e sul quotidiano locale. Isolamento diurno per 1 anno.
A questo non ero preparato. Per la prima volta mi piegai sui dorsali.
Quel piccolo codicillo non solo aveva cancellato il mio apparire, ma anche il mio essere.
Ero un numero.
Ritornai al carcere con uno stato d’animo sconosciuto. Durante la notte non chiusi occhio. Quel codicillo, quelle poche frasi mi tormentavano l’animo e il cervello.
Decisi di rivedere il miei familiari solo dopo 15 giorni. Avevo il colloquio all’area verde. Un posto lontano da orecchie indiscrete. I loro sguardi erano ancora pieni di speranza quando li incrociai.
Avevo già deciso. Raccontare loro tutte le verità. Un velo trasparente scese fra noi. Leggevo nei loro occhi la delusione. Ero smarrito. Mai un colloquio era stato così interminabile. Ci salutammo, ma c’era qualcosa di diverso. Rimanemmo per pochi minuti io e mia moglie. Il suo sguardo mi penetrò l’animo. Come è possibile che tu abbia fatto questo? Mi chiese. Come hai potuto uccidere tu?
Sei libera, le risposi. Fatti una vita. Sei ancora giovane e bella. Ti concedo già da adesso il divorzio. Mi guardò con uno sguardo che non le apparteneva, una luce diversa, decisa forte, disse: “Pensi veramente che un muro di cinta possa dividere la nostra famiglia?”
Quella fu la sentenza più dura che potessi ricevere.
Iniziai un lungo viaggio dentro di me. Un viaggio per conoscermi e di conoscenza. Sono passati da allora altri venti anni. Ho studiato, ho scritto, ho tradotto in napoletano Shakespeare e recitato. Ho portato sulle tavole del palcoscenico Eduardo De Filippo, Dante e tanti altri ancora. Ho avuto la fortuna e l’onore di far parte del cast di “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani. Ero Cassio.
L’arte la cultura l’amore dei miei, il dialogo con le Istituzioni, hanno completamente cambiato e schiarito i miei orizzonti. Ho la consapevolezza di cosa è il male, e di quello che ho inflitto.
Oggi sono nonno di tre nipotini. I miei figli grazie a mia moglie, che ha svolto il ruolo di madre e di padre, hanno saputo reagire con lo studio e il lavoro al pregiudizio di essere i figli dell’ergastolano.
Damiano, questo è il nome di mio figlio, è sposato con un avvocato, ha due gemelli, è responsabile del settore Design di Ermenegildo Zegna a Ginevra. Sabrina, mia figlia convive felicemente con un ex calciatore, ha un figlio e vive a Roma. Siamo una famiglia molto unita.
Io ho ottenuto la semilibertà. Tutte le mattine esco alle 5,30, alle 7,30 sono al mio posto di lavoro presso l’Università di Roma 3 con la qualifica di portiere fino alle 14,00. Dedico sempre alcune aree del pomeriggio al teatro. Recito con professionisti, studenti e detenuti. Ritorno in Istituto alle 23,30. Il sabato e la domenica tutto per la famiglia.
Non lo so cosa mi riserva il futuro, ma ho la certezza di conoscermi. Di accettare e amare essere e non più vittima dell’apparire.